La misura umana del Goldoni (1961)

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 65°, serie VII, n. 2, maggio-agosto 1961, pp. 258-269; il saggio deriva dalle dispense del Corso sul teatro comico del Settecento cit., e sarà ripubblicato in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.

LA MISURA UMANA Del GOLDONI

È necessario anzitutto liberarsi dal ritratto superficiale e abusato di un Goldoni frivolo e scettico, curioso osservatore sorridente di una realtà che lo interessa solo come materiale di ridicolo (quello che fu, ad esempio, un Fagiuoli) e reagire a certe pericolose deduzioni da confronti che vanno semmai adoperati per delimitare l’ambito dei suoi interessi, per qualificare obbiettivamente e positivamente il suo atteggiamento di fronte alla vita, restituendo a questo la sua validità storica e la sua personale originalità.

Se si confronta cosí il Goldoni con l’Alfieri (paragone fatto soprattutto parlando delle loro due autobiografie), si dovrà utilizzare tale rischioso paragone non per schiacciare il moderato e prudente Goldoni, per indicarlo mediocre e superficiale in quanto privo della tensione tragica, della ardente malinconia del grande poeta preromantico, ma proprio per una prima verifica del suo particolare atteggiamento storico e personale. Goldoni non lotta come l’Alfieri contro il limite della realtà, non sente l’amara scontentezza di una vita e di una civiltà contro cui l’Alfieri reagiva con la sua ansia di infinito, con il suo individualismo e la sua rivolta preromantica. Egli accetta il limite della realtà (e la concezione civile e mondana diffusa dall’illuminismo nella sua forma piú popolare e comune) con fiducia e letizia, ama la realtà (e soprattutto la realtà umana, la casa, la città degli uomini, le loro relazioni socievoli, il saldo terreno su cui si svolge l’avventura ricca ed avvincente della vita), sente la ricchezza inesauribile della realtà.

Come l’Alfieri è il poeta dell’urto tragico contro il limite, cosí il Goldoni è il poeta del limite, della vita nel limite, di una vita seriamente e serenamente accettata ed amata con profonda simpatia nella sua spontaneità e concretezza, nella sua affascinante varietà di vicende e di persone (ciò che settecentescamente egli chiamerà «il mondo»: e mondo e teatro dirà i suoi veri maestri, nel suo ordine saldo e nella sua costante apertura di maggiore ricchezza e di maggiore civiltà).

E noi potremo ben avvertire, con la nostra coscienza di eredi del romanticismo, i limiti di questa esperienza e di questa concezione, rallegrarci per l’approfondimento che nella storia umana ha portato il romanticismo, ma non potremo non riconoscere come, nella sua adesione agli ideali medi della civiltà illuministica, il Goldoni abbia avuto una sua serietà e come la sua umanità sia a suo modo interessante e valida, come egli abbia umanamente e poeticamente rappresentato una fase essenziale di civiltà di cui non è semplice documento, ma attivo, originale elemento creativo, sí che persino certi miti come quello della Venezia settecentesca come una continua scena teatrale noi li dobbiamo realmente allo stesso Goldoni, al modo poetico con cui egli dette ad una realtà il suo tono originale, il suo ritmo festoso e poetico.

Il Goldoni sentí fortemente e spontaneamente (non tanto attraverso studi e letture, quanto attraverso un’esperienza viva e congeniale) i valori medi fondamentali della civiltà illuministica quale si venne attuando in Italia in forme prudenti e concrete, meno estreme e combattive, ma non meno serie e convinte di quanto essa prese in altre culture e condizioni nazionali: e senza con ciò potersi definire un poeta illuminista nel senso che conviene piuttosto al Parini se si dà a illuminismo il proprio senso di coscienza combattiva del celebre discorso kantiano.

Anzitutto egli sentí con grande serietà il valore della vita, ebbe fiducia nei suoi precisi termini mondani, nell’assenza di ogni spiegazione e destinazione metafisica e trascendente. Donde la chiara antipatia per la filosofia medioevale scolastica e, nella scarsa disposizione ad ogni meditazione filosofica, la convinzione che la sua epoca fosse arrivata ad una migliore filosofia pratica, fatta per la vita, traducibile per lui in filosofia del «buon senso», filosofia per tutti, volta al bene della città degli uomini.

Come si può tra l’altro vedere da un passo dei Mémoires, in cui parlando dei suoi studi filosofici a Rimini parla con ironia del professore «che era tomista fin nel profondo dell’anima», deride i suoi termini e ragionamenti «scolastici», e poi aggiunge: «La philosophie moderne n’avoit pas encore fait les progrès considérables qu’elle a fait depuis, et il falloit se tenir (les ecclésiastiques surtout) à celle de Saint Thomas ou à celle de Scot, ou à la péripatéticienne, ou à la mixte, qui toutes ensemble ne font que s’écarter de la philosophie du bon sens»[1].

La vita è sentita interessante nell’hic et nunc, nella sua realtà fra nascita e morte e, come il Goldoni non sente il problema metafisico, cosí non sente il pensiero della morte e se accenna alla morte non vi si indugia. E se deve dare, nelle sue lettere, la notizia della scomparsa di un amico, lo fa con un certo distacco e subito ritorna alle cose dei vivi, che tanto seriamente lo interessano e lo commuovono. «Mi dispiace – scrive al Paradisi il 28 marzo 1763 – doverle dare la cattiva nuova – la morte di un comune amico – che ha inteso; ma ella mi ha comandato; ed io ho obbedito. Un buon filosofo dà e riceve con indifferenza le notizie dei morti, sicuro di dover arrivare allo stesso fine. Parliamo ora dei vivi ecc.»[2]. E lo stesso ricordo della scomparsa dei propri amatissimi genitori è per lui occasione di rievocare la loro vita, le qualità del loro carattere e della loro vitalità, non occasione di rimpianto, sospiro e meditazione.

E si pensi del resto ad una celebre descrizione della battaglia di Parma cui il Goldoni assisté, nel 1733, dalle mura della città. E se l’orribile visione del campo di battaglia coperto di morti, di cadaveri denudati dai ladri, provoca naturalmente un senso di pietà nel suo animo tutt’altro che insensibile, egli non indugia su questo motivo e si rivolge anzi con piú intima energia alla descrizione della città in festa per lo scampato pericolo, e in questa descrizione di vita la sua pagina si fa piú vibrante e poetica[3].

La visione o il pensiero della morte (assai rari nella sua opera) lo inducono insomma a immergersi con maggiore intensità nella fruizione e nella fiducia della vita.

Né il Goldoni ha speciale interesse per la religione e per i suoi ministri. Non che si possa accettare l’idea del Vittorini, secondo cui l’assenza totale dei sacerdoti dalle commedie goldoniane sarebbe l’indice di una volontaria esclusione di ogni mediazione sacerdotale nella nuova vita civile[4], ché questa esclusione deriva semplicemente dalla proibizione, a Venezia ed altrove, di portare sulla scena personaggi e questioni religiose. Ed anzi, in una lettera da Roma al Cornet del 28 aprile 1759, il Goldoni si rammaricava di non potere utilizzare nel suo teatro il magnifico materiale comico che gli veniva dall’ambiente ecclesiastico romano: «In Roma avrei modo di provvedermene (di nuovi caratteri), ma sono coperti da certe divise interdette alle scene, e lo spogliarli di queste è lo stesso che far veder una donna disabbigliata»[5].

Ma già questa lettera mostra come l’atteggiamento del Goldoni verso i ministri del culto fosse per lo meno molto spregiudicato ed ironico (nella stessa lettera continuava: «La commedia si abbevera ad un vasto fonte, ma alcuni rivoli piú fecondi non soffrono esser toccati e alcune volte le convien soffrire l’astinenza nell’abbondanza...»), e quando, a Parigi, nella sua vecchiaia, il poeta poteva esprimersi con maggior libertà, piú volte nei Mémoires egli introdusse ritratti di religiosi, e tutte le volte il suo tono si fa particolarmente ambiguo quando non si fa apertamente ironico nel tratteggiare caratteri di ipocrisia, di interessata pietà, di secolare abilità diplomatica.

Quando, per esempio, nella narrazione del suo viaggio di ritorno a casa, dopo l’espulsione dal collegio Ghislieri di Pavia (per avere scritto una satira contro le fanciulle della città), descrive le tristi giornate passate nella navicella che lo conduce, pieno di rimorsi, verso Chioggia, la sua pagina improvvisamente si fa particolarmente umoristica e compiaciuta nel racconto dell’incontro con un domenicano (e si notino le sottili sfumature, l’abile costruzione stilistica che ne fa un esempio notevole dell’arte dei Mémoires):

Le soir on m’envoye chercher pour souper, je refus d’y aller; quelques minutes après j’entends une voix inconnue, qui d’un ton pathétique prononce ces mots, Deo gratias; il faisoit encore assez clair; je regarde par une fente à travers de la porte, et je vois un religieux qui s’adressoit à moi; j’ouvre la coulisse, il entre.

C’étoit un dominicain de Palerme, frère d’un fameux Jésuite, très célèbre prédicateur; il s’étoit imbarqué ce jour-là à Plaisance; il alloit à Chiozza comme moi: il savoit mes aventures, le patron lui avoit tout révelé, il venoit m’offrir des consolations temporelles et spirituelles que son état le mettoit en droit de me proposer, et dont ma position paroissoit avoir besoin.

Il mettoit dans son discours beaucoup de sensibilité et beaucoup d’onction; je lui voyois tomber quelques larmes, du moins je lui vis porter son mouchoir aux yeux; je me sentis touché, je m’abandonnai à sa merci.

Le patron nous fit dire qu’on nous attendoit; le Révérend Père n’auroit pas voulu perdre sa collation, mais il me voyoit pénétré de componction; il fit prier le patron de vouloir bien attendre un instant; ensuite il se tourne vers moi, il m’embrasse, il pleure, il me fait voir que j’étois dans un état dangereux, que l’ennemi infernal pouvoit s’emparer de moi, et m’entraîner dans un abyme éternel. J’étois subjet, comme je l’ai déjà annoncé, à des accès de vapeurs hypocondriaques, j’étois dans un état pitoyable; mon exorciste s’en apperçut, il me proposa de me confesser, je me jette à ses pieds. Dieu soit béni, dit-il; oui, mon cher enfant, faites votre préparation, je vais revenir, et il va souper sans moi.

Je reste à genoux, je fais mon examen de conscience; au bout d’une demi-heure le Père revient avec un bougeoir à la main; il s’assied sur mon coffre: je dis mon Confiteor, et je fais ma confession générale avec l’attrition requise, et une contrition suffisante; il s’agissoit de la pénitence; le premier point, c’étoit de réparer le tort que j’avois pu faire à des familles, contre lesquelles j’avois lancé des traits satyriques. Comment faire pour le présent? En attendant, dit le Révérend Père, que vous soyez en état de vous rétracter, il n’y a que l’aumône qui puisse fléchir la colère de Dieu, car l’aumône est la première oeuvre méritoire qui efface le péché. Oui, mon Père, lui dis-je, je la ferai. – Point du tout, répliqua-t-il, il faut faire le sacrifice sur-le-champ. – Je n’ai que trente paules. – Eh bien, mon enfant, en se dépouillant de l’argent qu’on possède, on a autant de mérite que si on donnoit davantage. Je tirai mes trente paules, je priai mon confesseur de s’en charger pour les pauvres; il le voulut bien, et me donna l’absolution.

Je voulois continuer encore, j’avois des choses à dire que je croyois avoir oubliées; le Révérend Père tomboit de sommeil, ses yeux se fermoient à tout moment; il me dit de me tenir tranquille, il me prit par la main, il me donna sa bénédiction, et alla bien vite se coucher.

Nous restâmes encore huit jours en chemin, je voulois me confesser tous les jours, mais je n’avois plus d’argent pour la pénitence[6].

Non si tratta solo di una inclinazione, tipica dei Mémoires, a tradurre tutto in tono di lieve e gustosa commedia, a rivedere la propria vita con un bonario umorismo, assecondato dalla singolare congenialità di uno stile che ha assimilato con grande perizia le qualità ironiche del francese settecentesco, ché tutta la scena deliziosa è costruita con uno spirito innegabile di volontaria satira (anche se cosí signorile e misurata) di un costume secolare, di una interessata pietà di cui il Goldoni riflette in maniera abilissima nel suo linguaggio le particolarità di discorso e di azione insinuante e tempestiva.

E del resto, come tutte le volte che egli accenna a culti ed a oggetti di devozione, a santuari (il sant’anello di Perugia o la santa casa di Loreto), la sua pagina si fa lievemente irridente ed ironica (ed anche in questo egli aderiva istintivamente ad una svalutazione illuministica di ogni forma di superstizione e di devozione tradizionale)[7] cosí ogni volta che parla per se stesso (e si badi bene, solo per il periodo piú giovanile, per l’epoca della sua incerta formazione, dei suoi entusiasmi inesperti) di crisi di misticismo, di improvvisi impeti di fede e di devozione, il Goldoni li ricollega assai crudamente a momenti di debolezza, ad eccessi della sua nevrastenia o, come appare piú indicativo in termini settecenteschi, ai suoi «vapori ipocondriaci»[8].

Né si giunga perciò ad immaginarsi un Goldoni combattivo «libero pensatore» e profondamente irreligioso (o magari precisamente aderente alla religiosità deistica massonica[9]). Goldoni non sentiva il problema religioso e la devozione confessionale che facilmente riduceva a superstizione popolare o strumento di interessi egoistici e mondani. E se continuava ad accettare i termini piú generali della religione tradizionale e parlava (ma non molto) di Dio e di Provvidenza, egli in realtà li riempiva di un valore istintivamente immanentistico, li considerava come legati alla sua fiducia nella vita, al suo amore ottimistico per la vita, al suo spontaneo rispetto per la attività umana in una realtà impensabile per lui senza gli uomini e le loro città, resa seria ed interessante dai valori connessi alla vita umana, alla convivenza civile. Sicché il suo atteggiamento di disinteresse e di ironia nei riguardi della società ecclesiastica, come di ogni atteggiamento mistico e di ogni soluzione metafisica, e la sua diffidenza di fronte alla devozione esagerata che diventa sempre per lui falsa devozione interessata ed ipocrita[10], implicano insieme un’antipatia generale e convinta per ogni evasione dagli impegni civili, per ogni interessata falsificazione della natura umana e una persuasa adesione ad ideali che egli viveva con sincera partecipazione personale in accordo con la sua epoca e che anzi in lui prendono un originale colore di sorriso fiducioso e sereno: l’onore, l’amicizia, la sincerità nei rapporti fra gli uomini, essenziali alla circolazione della vita, al libero e concreto svolgersi della civiltà.

Tutto ciò che non serve alla vita della città degli uomini è inutile e dannoso, tutto ciò che rompe l’essenziale comunicazione fra gli uomini è addirittura (se Goldoni avesse potuto adoperare tale termine) peccaminoso: cosí l’ipocrisia, grande nemica del Goldoni e del Settecento razionalistico ed illuministico, a cui egli oppone, con un tono che si fa serio e persino entusiastico, la sincerità, la franchezza, il senso d’onore.

Quando Goldoni parla di questi valori morali e civili si avverte in lui un accento di serietà, di convinzione, a volte quasi di intima commozione, di lieto entusiasmo. Se deve dire ad un amico che cosa gradirebbe che questi dicesse di lui in un elogio in versi, egli si preoccuperà solo della «verità» e della sua qualità di «uomo d’onore»: «Circa le opere mie sono al pubblico troppo note, ed ella dee parlarne come pensa, senza che l’amicizia tradisca la verità. Rispetto alla mia persona, quando che sia persuasa di dire ch’io sono un uomo d’onore, non mi può fare maggiore elogio. Se poi volesse divertirsi a leggere le mie lettere dedicatorie e le prefazioni alle mie commedie... vedrà s’io sono amante del vero» (lettera del 29 aprile 1758 al Vicini[11]).

Se vuole fare un elogio o dare un giudizio su di una persona, il primo posto lo dà alla sincerità, come fa in una graziosa e significativa lettera del 14 marzo 1761 all’Albergati Capacelli congratulandosi con lui per la sua nuova relazione di cavalier servente con la contessa Orsi: «Piacquemi sentire nella dama la gioventú e la bellezza. Ma il primo è pregio comune e il secondo non raro. L’allegria è stimabile, ma ha vari aspetti, dipendenti dai vari modi di esercitarla; quello, che piú di tutto mi persuade, che sia degnissima fra le belle e le giovani e le gioviali, è l’ammirabile pregio della sincerità, pregio raro, non dirò a’ dí nostri, ma in tutti i secoli e non dirò nelle donne soltanto ma in noi non meno. La sincerità sola è quella che dà il sapore a tutte le finezze di bella donna, facendo pienissima fede ch’ella ami chi merita di essere amato e stimi colui, che crede degno della sua stima ecc.»[12].

E questi valori di onore, di sincerità, di rispetto assoluto della verità (quante volte nei Mémoires egli insisterà sul vanto della sua fedeltà alla verità!), che danno sapore ai liberi vincoli dell’amicizia e dell’amore coniugale[13], acquistano una maggior consistenza e compattezza storica quando si riconoscano insieme come valori di una civiltà razionalistica nel suo sviluppo illuministico e di una società borghese e mercantile nel cui seno si formò il Goldoni, e da cui riprese fra gli altri il tipico motivo della «reputazione»: reputazione nel campo degli affari come reputazione nella scala dei valori morali ed artistici. Sicché in una commedia scopertamente ricca di espressioni del mondo morale goldoniano, La buona moglie, Pasqualino, debole, ma fondamentalmente onesto, davanti al cadavere di Lelio, inguaribilmente scioperato ed ucciso in una rissa, reagirà con dichiarazioni quanto mai significative: non proverà tanto l’orrore della morte quanto sarà atterrito (pensando che una simile sorte poteva capitare a lui) dall’idea della «reputazione» sua e della sua famiglia pregiudicata per sempre.

Morale angusta e mercantile? Ma a questo senso della «reputazione», del buon nome corrisponde non l’esteriore «punto d’onore», il puntiglio vano dell’«impegno» da mantenere per far buona figura (che Goldoni attribuisce semmai ai suoi personaggi piú frivoli, ai nobili scioperati e fannulloni), ma il centrale valore dell’onestà, dell’«uomo dabbene», del cittadino «onorato» perché veramente degno di onore, perché civilmente attivo e leale.

Sicché questi valori «borghesi» sono resi intensi ed efficienti dalla loro complessa giustificazione sociale e morale, dalla loro piena storicità, da un senso della vita ottimistico e attivo, legato profondamente ad una condizione sociale che si afferma fiduciosa e persuasa nei suoi ideali di ragione e natura, di saggia, concreta libertà, di umana convivenza prudente ed aperta, lontana dalle estreme applicazioni dei principi che la animano e la giustificano (Goldoni non è un rivoluzionario), ma priva insieme di quelle remore conservatrici che si possono ritrovare in un Metastasio, tipico rappresentante di una fase piú arretrata e timida nello sviluppo della civiltà settecentesca.

Ché se Goldoni non ha l’atteggiamento combattivo che pur ha il «riformatore» Parini, dimostra ben chiaramente il suo animo di uomo della media civiltà illuministica in infiniti aspetti della sua vita e della sua opera: l’antipatia del borghese, del «cittadino» per ogni sopruso e prepotenza nobiliare, l’antipatia per ogni sopravvivenza di usi feudali e secenteschi (il cavaliere saggio ed onesto, il cavaliere che alimenta la sua nobiltà con la giustificazione dei nuovi valori del lavoro[14] e della onestà, non disprezza le classi umili, non afferma la sua nobiltà se non con una maggiore dignità e saggezza – come avviene nel Cavaliere e la donna –, condanna e non accetta il duello, il diritto della spada e della prepotenza), l’antipatia per ogni offesa alla dignità umana e per l’intolleranza[15], l’antipatia istintiva per la professione militare e per la guerra, che corrisponde non ad una mancanza di coraggio quanto alla sicura coscienza della superiorità di una civiltà laboriosa e pacifica, della superiorità di un nuovo tipo di «eroe»: il cittadino sollecito dell’agio e del progresso della sua città, della sua famiglia, dei suoi simili, che sarà, con una carica morale piú esplicita e risentita, l’ideale eroe del Parini.

E di questa moralità e mentalità illuministica media e diffusa e appoggiata alla concreta vita della classe borghese in un periodo di affermazione poco rumorosa e polemica, ma concreta e sicura, il Goldoni vive istintivamente anche quella disposizione cosmopolitica che lo allontana da ogni forma di nazionalismo eccessivo: donde l’indifferenza di fronte a distinzioni «nazionali» dei valori artistici[16], l’interesse (non solo curiosità cosmopolitica, ma desiderio di comprensione e di giustificazione della comune dignità umana nei diversi costumi) per i popoli stranieri e la simpatia per le nazioni nord-occidentali, specie Olanda e Inghilterra, per la loro civiltà ammirata sin nei particolari dell’organizzazione della vita cittadina: e soprattutto per il loro grado di rispetto fra gli uomini, per la loro onestà mercantile, per la loro mancanza di pregiudizi, per la loro modernità e per quella forza di autocontrollo, per quella «flemma» che affascina il Goldoni in relazione ad una diffusa tendenza del suo tempo (l’anglomania studiata dal Graf), ma piú originalmente nella sua intima disposizione ad un ideale di tranquillità e di calma che l’uomo goldoniano conforta con la sua vita laboriosa, onesta, con il suo rifiuto non delle passioni e della fantasia, ma del loro sfrenato, eccitato prepotere.

E se nella rappresentazione del «flemmatico» olandese dei Mercatanti o in quella del Filosofo inglese o nella stessa figura centrale dell’Apatista si può notare una certa rigidezza di figurini poco vivi, quando il Goldoni nelle lettere e nei Mémoires ci parla di se stesso, questo ideale dell’uomo tranquillo non solo si fa poetico e vibrante di un calore personale cosí cordiale ed intimo che va calcolato positivamente nella valutazione dell’autobiografia goldoniana[17], ma si arricchisce e si approfondisce, ben al di là dell’immagine del «buon uomo» di cui parla il Croce o del gretto piccolo borghese del Mic, con quella sorta di entusiasmo giovanile mai spento per la vita e le sue infinite risorse di esperienze stimolanti e confortanti, con quella fiducia e quello slancio attivo che supera ogni semplice posizione di scetticismo o di indifferenza.

Il tranquillo, pacifico Goldoni che risparmia le sue forze per mantenerle efficaci negli impegni del lavoro, che oppone nuovo lavoro e nuova fiducia agli insuccessi, che risponde alle numerose difficoltà pratiche proprie ed altrui non con lamenti, ma con nuova attività e con la concreta attuazione dei suoi ideali di solidarietà umana (il fratello per la sua sventatezza si trova in difficoltà economiche, ed egli ne prende il figlio e lo alleva con sé senza la minima recriminazione), non è una personalità gretta e misera, ché la sua tranquillità non è un egoistico rifugio, ma un modo di vita coerente ai suoi ideali e un mezzo di metterli in pratica piú concretamente ed efficacemente. Né la sua vita e la sua esperienza mancarono del senso dell’avventura e della fantasia, né il suo sguardo attento alla vita degli uomini, alla realtà civile del proprio tempo si può ridurre a semplice curiosità e ad insensibilità per altri aspetti e problemi della vita a cui egli – risoluto e chiarissimo nelle sue scelte – non dà neppure quel rilievo e quell’adesione generica che non manca in altri temperamenti piú superficiali ed eclettici.

Egli si occupa solo di ciò che davvero lo interessa e lo commuove, e se noi possiamo ben indicare i limiti della sua visione e del suo sentimento della vita dobbiamo anche sentire che in quella limitatezza vive la sua forza e la sua originalità, la, sua sincerità estrema e la sua energia: e il suo significato storico.

Anche nel possibile paragone fra i Mémoires e la Vita dell’Alfieri, proprio nei confronti della reazione dei due scrittori al paesaggio e alla natura, non si dovrà puntare su di un facile schiacciamento del «ragionevole» Goldoni da parte del «titanico» e romantico Alfieri. Certo se si va a cercare nei Mémoires non dirò una pagina, ma un accenno dedicato a descrizioni di paesaggi, di luoghi solitari e suggestivi, non se ne troverà neppure uno. Il Goldoni non sente la natura se non è animata dalla presenza degli uomini, se non è organizzata dagli uomini come sfondo e quadro delle loro città, come arricchimento di giardini ordinati e frequentabili.

Egli attraversa nei suoi viaggi campagne, foreste, fiumi, ma non ne parla mai, non se ne interessa, come non lo affascina la solitudine, l’arcano orrore di luoghi abbandonati e misteriosi. Quando, spinto dalla sua forte curiosità, scende a Volterra[18] nelle catacombe etrusche, egli ne riporta solo l’impressione fastidiosa del buio e del pericolo e non quelle impressioni di mistero, di suggestione che un preromantico vi avrebbe certamente provato.

E quando parla nei Mémoires del suo soggiorno giovanile nella villa di Vipacco del conte Lantieri, non ha una parola per il paesaggio singolare che la circonda, ma è tutto preso dal ricordo piacevole della vita lieta della società che il conte vi raccoglieva, delle sue recite, dei pranzi e degli interminabili brindisi di «piccolit» in bicchieri speciali (detti glogló) che egli descrive con particolare piacere nella loro singolare struttura a piú piani, capace di permettere, nella concorde azione dei bevitori, una «singolare musica»[19].

Insomma ponete il Goldoni di fronte a spettacoli naturali e lo troverete freddo ed evasivo, ma portatelo poi in una città, di fronte alla natura organizzata dagli uomini per la loro vita e allora egli descriverà, esprimerà giudizi e lodi, la sua pagina si farà animata e vibrante.

E, si noti subito, non saranno tanto i monumenti artistici nel loro puro valore estetico a colpirlo, ma la città con la sua vita, con il suo agio, con la sua prosperità, con la sua sistemazione urbanistica adatta alla vita degli uomini che la abitano. Si può dire anzitutto che per Goldoni la realtà (quella realtà che lo interessa) è ricca di risorse, è stimolante per l’animo e per la fantasia: la realtà è piú ricca di ciò che si può immaginare e sognare e, per fare un caso estremo, si confronti la reazione del Goldoni di fronte alle città che vede per la prima volta e quella di un Alfieri e di un Leopardi in situazioni analoghe. Mentre il confronto fra l’immaginato e il reale è per Alfieri o Leopardi sempre a scapito del secondo (la prima visita dell’Alfieri a Parigi, la prima visita del Leopardi a Roma), la realtà non delude il Goldoni ed anzi piú volte di fronte a città che desidera da tempo vedere (Parigi soprattutto), di fronte a famosi edifici vagheggiati e fantasticati in precedenza, il Nostro ha una uguale reazione. Parigi «ogni dí piú lo sorprende e sorpassa la prevenzione e la immagine che in si aveva formata» (lettera del 6 settembre 1762 al Cornet)[20]; e per l’impressione fattagli da S. Pietro a Roma addirittura spiegherà: «j’avais cinquante-deux ans quand je vis ce temple pour la première fois; depuis l’âge de la raison jusqu’à ce tems-là j’en avois entendu parler avec enthousiasme; j’avais parcouru les historiens et les voyageurs qui en font des descriptions exactes et de détails raisonnés; je crus qu’en le voyant moi-même, la prévention auroit diminué la surprise; au contraire, tout ce que j’avais entendu étoit au-dessous de ce que je voyois; tout ce qui me paroissoit exagéré de loin, grandissoit infiniment à mes yeux»[21].

E se questa impressione e l’entusiasmo che riscalda la pagina goldoniana quando descrive nuove città con le loro bellezze, con il loro agio, con la loro vitalità, si ripetono in molti punti dei Mémoires, il Goldoni rivela soprattutto questa caratteristica disposizione del suo spirito, questa commozione sentimentale e poetica per la realtà umana, per le sue città, per la natura organizzata dagli uomini, quando egli parla di Parigi (e tutta la terza parte dei Mémoires è singolarmente animata da questa indagine amorosa del Goldoni che ripercorre e rievoca le bellezze, le comodità, la vitalità di Parigi) e, piú ancora, di Venezia.

Anzi nei Mémoires il primo contatto con la sua città (da cui si era allontanato bambino), i ritorni dopo le assenze, sono occasioni per pagine vibranti e poetiche, in cui la lontananza nello spazio e nel tempo – Goldoni scriveva i Mémoires a Parigi, quando era sull’ottantina – non porta tanto una nostalgia elegiaca quanto un rinnovato movimento di compiacenza ed uno sforzo di precisazione piú nitida di quelle immagini cosí amate.

E si rilegga la descrizione del primo incontro con Venezia[22] dalla vista sorprendente della città con le sue piccole isole e i suoi ponti, i suoi canali percorsi dalle imbarcazioni, all’ingresso superbo della piazzetta e di piazza S. Marco davanti a cui il suo occhio è affascinato, piú che dagli edifici maestosi, dal movimento nella rada di navi d’ogni specie, dalla loro varietà pittoresca e dal sottinteso piacere del loro significato di vita commerciale, di prosperità cittadina. Ma la descrizione si fa piú attenta e gustata quando, dallo spettacolo del porto e di piazza S. Marco, la memoria del Goldoni segue il giovinetto che si addentra nella Merceria, nelle vie che conducono al ponte di Rialto: vie affollate come «in una fiera perpetua», vie fatte per la comodità degli uomini come il ponte ardito e ricco di botteghe.

E con quale piacere il Goldoni inizia questa parte per lui cosí interessante («Vous allez par les rues de la Mercerie jusqu’au pont de Rialto») e come rileva con interesse particolari che potrebbero sembrare i segni di uno spirito angusto e meschino se noi non avvertissimo la particolare animazione di simpatia poetica con cui lo scrittore dà luce a tutto ciò che rappresenta agio, comodità: nella città fatta per gli uomini, per la loro vita civile, per agevolare i loro rapporti socievoli: cosí ricorderà che le strade veneziane sono fatte di «pierres quarrées de marbre d’Istrie, et piquetées à coup de ciseau pour empêcher qu’elles ne soient glissantes», che il ponte di Rialto permette il passaggio a barche e battelli e insieme «offre trois différentes voies aux passagers, et soutient sur sa courbe vingt-quatres boutiques avec leur logement et leurs toits couverts en plomb».

E questa prima descrizione di Venezia è aperta da un preambolo in cui il Goldoni si preoccupa di stabilire l’originalità inconfondibile della città, inimmaginabile se non si è vista, e lo stimolo, l’arricchimento sempre nuovo offerto da quella al suo animo man mano che passavano gli anni e cresceva la sua esperienza e capacità di esperienza: «chaque fois que je l’ai revue, après longues absences, c’étoit une nouvelle surprise pour moi; à mesure que mon âge avançoit, que mes connoissances augmentoient, et que j’avais de comparaisons à faire, j’y découvrois des singularités nouvelles et de nouvelles beautés».

E quando racconterà il ritorno a Venezia nel 1748 sottolineerà il piacere di rivedere la sua città «qui m’avoit toujours été chère et qui embellissoit à mes yeux toutes les fois que j’avois le bonheur de la revoir»[23]. Venezia diventa cosí quasi un simbolo della realtà civile che il Goldoni piú ama e in cui scopre «sempre nuove bellezze».

Lo spettacolo piú attraente per lui è quello di una città animata di traffici, di attività, di folla indaffarata e lieta: sicché un’altra descrizione della città (riveduta nel 1734, dopo una lunga assenza), iniziata cosí poeticamente con la passeggiata che egli fa, appena arrivato, prima ancora di tornare a casa, per le vie da Rialto a S. Marco, durante la notte, culmina nello spettacolo «charmant» delle strade illuminate, con le botteghe ancora aperte («molte non si chiudono mai» nella notte), con la piazza e i caffè pieni di gente («hommes et femmes de toute espèce»), di una folla lieta e desiderosa di divertimento e di conversazione, di espressione corale del proprio animo vitale e sereno: «On chante dans les places, dans les rues, et sur les canaux. Les marchands chantent en débitant leurs marchandises, les ouvriers chantent en quittant leurs travaux, les gondoliers chantent en attendant leurs maîtres»[24].

Ma il Goldoni non guarda solo con simpatia profonda (non solo bonarietà spensierata ed arguta) e con cordiale partecipazione sentimentale e poetica alla città degli uomini, alla folla varia e vitale. Il suo interesse va ai singoli uomini e donne con le loro caratteristiche ridicole e piacevoli, interessanti purché vitali, e insieme nuovi, inconfondibili e pure umani e umanamente comprensibili: uomini e donne colti nelle stesse pagine dei Mémoires sempre in movimento, in azione, mai in un fisso e scavato ritratto: si pensi alla maniera con cui Rousseau vive nei Mémoires non tanto attraverso i giudizi assai deboli del Goldoni, ma nelle scenette vive dei loro incontri, nella descrizione della sua stanza disordinata e delle sue collere improvvise. Sicché, a parte la galanteria cosí innata e la sempre confessata attrattiva del «bel sesso», Goldoni guarda con simpatia soprattutto alle donne proprio per la maggiore vitalità fra attività saggia e capriccio, fra senso di concretezza e tentazione della fantasia irrequieta, avventurosa.

Ché se il Goldoni ha un senso serio della onestà, della saggezza, del cittadino onorato, ecc., la sua fantasia si accende quando a queste qualità si accompagnano quelle dell’animazione e della spontanea tendenza all’avventura, come in quei personaggi tanto stimolanti per lui e per il suo teatro (seppure esasperanti per la sua tranquillità) che sono i comici, gli attori, onesti ed estrosi, affascinanti nelle loro piccole manie e nella loro avventurosità (si ricordi la celebre pagina sul viaggio in barca da Rimini a Chioggia che ha un’attuazione teatrale nell’Impresario delle Smirne) anche quando giungono alla civetteria compromettente della Passalacqua nella scenetta di tentata seduzione nel salotto e nella gondola[25].

E proprio la narrazione di questa avventura, interrotta dalla prudenza del galante, ma non libertino Goldoni, ci può condurre ad un’ultima osservazione sull’uomo, sul suo animo «pieno di buon senso» (per dirla con il Mic) ma anche libero e vivo: la saggezza goldoniana non è mai pedanteria, la sua moralità, il suo amore per l’onestà non sono grette difese di un animo mediocre e freddo. Come «l’uomo dabbene», il «cittadino onorato» (ma anche «avventuriero onorato» come il Goldoni poté chiamarsi nell’omonima commedia) hanno la tentazione e l’esperienza dell’avventura (e la passione del giuoco e la galanteria non furono nascoste nei Mémoires), cosí lo scrittore, attentissimo ad eliminare ogni grossolanità, ogni accenno sconcio e scurrile, era ben ricco di esperienza e di una malizia fine e misurata che fan trasparire in tante deliziose pagine dei Mémoires il rapido balenare della sensualità; e sa abbozzare situazioni scabrose abilmente smorzate e risolte in maniera moralmente ineccepibile che fanno pensare, su diversa intonazione, a certe situazioni sterniane.

Nel suo linguaggio castigato e corretto vibra il calore e il fascino lieto e libero del desiderio amoroso, cosí soave nelle figure di fanciulle nell’attesa della vita coniugale, cosí malizioso in quelle delle vedove che il Goldoni porta in gran numero nelle sue commedie proprio perché gli permettono di creare piú liberamente questo singolare tono di esperienza, di ricordo e di attesa di nuovo amore.

E se in certi dialoghi piú liberi di servette una piú franca insistenza sulla componente sensuale dell’amore dà luogo a certe battute maliziose e vivaci che solo agli avversari del Goldoni poterono apparire «laidezze» (e sottolineano invece cosí piacevolmente il suo modo di correttezza non frigida, il suo senso cosí concreto, cosí umano e insieme cosí civile ed educato di un aspetto tanto importante e poetico della vita)[26], anche in quella preoccupazione dei genitori di non lasciar mai soli neppur un momento due giovani di sesso diverso, nella aspirazione di dongiovanni e libertini di godere la compagnia, il calore della vicinanza femminile (e al massimo di toccare una mano della donna desiderata) vibra tanto piú sottile e complesso questo sorriso di uomo esperto, preoccupato di evitare ogni accenno immorale, ma tutt’altro che pedantescamente pudibondo e moralisticamente frigido. E si pensi d’altra parte alla gamma complessa di sfumature del motivo amoroso che, fuori di un platonismo da lui tanto poco sentito, egli sa far vivere nelle sue commedie e che fra la malizia, la galanteria, le ansie della gelosia, la sentimentalità appassionata dei giovani innamorati, tanto contrasta con lo schematismo e l’impaccio che caratterizzano, in questa direzione, l’esperienza e l’espressione dei commediografi arcadici.

Vivo alla poesia dell’avventura nei limiti della ragione e della realtà, Goldoni è ben vivo a tutto il calore di sentimento dei rapporti fra le creature umane, a tutta la complessa ricchezza concreta della «commedia umana», alla sua sincera, genuina esperienza del «mondo». Sicché «buon senso», ragionevolezza, moralità non escludono in lui una simpatia profonda per la vitalità nei suoi moventi piú schietti ed elementari anche se inseriti in un mondo educato e civile. E le sue figure piú vere non sono mai astratti figurini di virtú o mostruosi esempi di vizio, mai, soprattutto, esseri privati di ogni umore e risentimento, e la loro ragionevolezza, la loro civile condotta è sempre insaporita dai vivi fermenti della loro schietta materia umana.

Ed anche in questo Goldoni esprime con tanta partecipazione originale l’aspirazione migliore del suo tempo a portare nel teatro, piú che «lezioni di morale» (come era avvenuto soprattutto con il Maggi), figure vive[27] e capaci di vero dialogo[28], a unire concretamente l’esperienza del «mondo» e del «teatro».


1 C. Goldoni, Opere, a cura di G. Ortolani, Milano 1935, vol. I, p. 22.

2 Opere cit., vol. XIV, Milano 1956, p. 278.

3 Opere cit., I, p. 147 ss.

4 Cfr. E. Vittorini, introd. alle Commedie del Goldoni, Torino, 1952.

5 Opere cit., XIV, p. 216.

6 Opere cit., I, pp. 61-63.

7 V. Opere, I, p. 16 e p. 398, dove la meraviglia per l’opulenza del santuario di Loreto culmina nell’ironico elogio delle immense cantine, prova della «immensité des biens-fonds que la piété chrétienne a consacré à la devotion des étrangers et à l’aisance des habitans».

8 V. Prefazioni all’edizione Pasquali delle Commedie, in Opere, I, p. 660, dove il Goldoni fa la caricatura di una di queste sue crisi, quando va dal padre «in aria penitente e col collo torto» a dirgli che voleva farsi frate, e il padre che era uomo dabbene, ma non bacchettone, e che lo voleva «cristiano, ma non santocchio» conobbe subito «che i suoi vapori erano la sua ispirazione» e con un po’ di distrazione e di vita socievole gli tolse ogni desiderio di «chiostro» e di «cappuccio».

9 Come si potrebbe fare erroneamente sulla base della commedia Le donne curiose, in cui semmai, nelle regole e nella segretezza della strana società per soli uomini che eccita la curiosità delle donne, si può vedere una bonaria caricatura delle regole e dei riti della massoneria settecentesca.

10 La falsa devozione lo porta addirittura ad un certo tono di sdegno, come si può vedere nella narrazione della seduzione che una falsa devota napoletana esercita su di un giovane americano bigotto. Prima il tono è di commedia (la donna chiama un giorno il giovane, lo fa inginocchiare davanti ad un’immagine sacra, lo invita a ringraziare la Vergine e Dio e a gridare al miracolo perché il marito è morto ed essa può sposare il giovane americano), ma poi nella riflessione sull’ipocrisia, unica qualità che non si può perdonare ad una donna, il tono si fa piú amaro e reciso (v. Opere, I, pp. 586-587).

11 Opere cit., XIV, p. 203.

12 Opere cit., XIV, p. 237.

13 V. la prefazione al tomo XV dell’edizione Pasquali, in cui cosí parla del matrimonio e della famiglia: «Non vi è bene maggiore sulla terra, non vi è piú vera ricchezza, non vi è maggior felicità oltre quella di un matrimonio concorde e di una famiglia in pace» (Opere cit., I, p. 735).

14 Tipica in tal senso la commedia Il cavaliere di buon gusto in cui il protagonista non disdegna di associarsi alla attività commerciale di Pantalone e protesta contro l’inutile albagia dei suoi «colleghi» (direbbe il conte di Roccamarina del Ventaglio). O si pensi alle Donne puntigliose in cui, se si condanna la inutile velleità della «mercantessa» di mescolarsi alle «dame», di queste si rileva a chiare note la stupida boria e i compromessi indecorosi fra i loro pregiudizi di casta e l’avidità del danaro in gran parte passato nelle mani dei disprezzati mercanti.

15 Si veda la pagina dei Mémoires in cui descrive l’orrore provato allo spettacolo della pubblica ritrattazione imposta dalle autorità religiose al Vicini a Modena (Opere cit., I, pp. 84-85).

16 Opere cit., I, p. 462, in cui il Goldoni rifiuta la polemica sulla musica francese ed italiana: «si un air me touche, s’il m’amuse, je l’écoute, avec délice, je n’examine pas si la musique est françoise ou italienne; je crois même qu’il n’y en a qu’une».

17 Si rilegga la deliziosa pagina dei Mémoires in cui il Goldoni descrive con compiacenza ed umorismo le sue serate di vecchio tranquillo, lieto del temperamento che la natura gli ha dato (Opere cit., I, pp. 598-599). E si noti anche la serena limpidezza di questi racconti non incrinati dalla stanchezza o dalla querimoniosità dell’età senile.

18 Opere cit., I, p. 218.

19 Opere cit., I, pp. 76-77.

20 Opere cit., XIV, p. 259.

21 Opere cit., I, p. 401.

22 Opere cit., I, pp. 35-36.

23 Opere cit., I, p. 243.

24 Opere cit., I, pp. 160-161. E conclude: «Le fond du caractère de la nation est la gaité, et le fond du langage vénitien est la plaisanterie». La città gli appariva «toujours plus extraordinaire et plus amusante». Si può qui vedere anche come il mito di Venezia «teatro vivente», di Venezia tutta letizia e della stessa naturale disposizione comica del linguaggio veneziano, che hanno avuto tanta fortuna dall’ultimo Ottocento al D’Amico, siano in realtà, piú che una realtà che si sarebbe imposta deterministicamente al Goldoni (e il Goldoni ne sarebbe stato il prodotto quasi inconsapevole), l’effetto della sua personale interpretazione di una congeniale realtà.

25 Opere cit., I, pp. 175-176.

26 Pensiamo alla servetta che all’inizio del Servitore di due padroni commenta maliziosamente l’ansia dell’innamorato Silvio che non pensa al pranzo, tutto attento com’è alla fidanzata («certo che questa è la migliore vivanda», Opere cit., II, p. 13) o alla Corallina della Castalda che provoca l’innamorato Frangiotto, geloso del padrone, ad una battuta assai significativa per questo vibrare di malizia nel linguaggio impeccabile: «Corallina: Di che cosa potete voi dubitare? Frangiotto: Che siccome noi facciamo a metà col padrone dei beni suoi, egli non abbia a fare a metà con me del cuore di mia consorte. Corallina: Del cuore non sarebbe grancosa. Frangiotto: Sí, ho parlato con modestia. Ma c’intendiamo; quando dico del cuore, m’intendo anche della coratella» (Opere, IV, p. 20).

27 Già il Nelli aveva detto che la miglior maniera di «ammaestrare dilettando» era quella di mostrare gli uomini «quali sono» (non quali debbono o possono essere) e tutte le polemiche settecentesche sulla natura dei personaggi drammatici vertono intorno alla scelta fra i caratteri alti, ideali e quelli medi, piú umani e piú veri (e già il Gravina puntava, per la commedia, su questi ultimi).

28 Per la disposizione goldoniana al dialogo in un senso «preteatrale» si veda ora l’interessante comunicazione di G. Piovene, in Studi goldoniani, Venezia-Roma, 1960.